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Una Formazione Sciatta

  • Immagine del redattore: Il Dislessico
    Il Dislessico
  • 1 mag 2020
  • Tempo di lettura: 6 min

Di Filippo Argenti

Si avvicina per un’altra generazione di studenti l’esame di maturità, che in questo caso corona un anno didattico già “chiuso” il 4 marzo, data nella quale, senza saperlo, molti di noi hanno concluso un ciclo importante dei loro studi e della nostra vita.

Da quel giorno è passato un mese e mezzo e ora, facendo parte dei maturandi, con quella curiosità un po’ romantica di chi ha quasi tagliato un traguardo mi voglio guardare alle spalle e fare una disamina del percorso, in modo il più possibile generale.

Questa considerazione post-traguardo gravita attorno ad una serie di domande, la prima fra tutte è questa:

che cos’è la scuola?

Di risposte ce ne sono molte, ma nel caso se ne voglia dare una organica, anche se un po’ vaga, questo è il risultato.

La scuola è quell’istituzione, pubblica o privata, laica o religiosa, aperta o limitata ad alcuni, a cui un gruppo di persone associate riconosce la facoltà di preparare la generazione futura al proprio futuro.

Già da questo sembra chiaro come il modello di scuola non sia uno solo, ma dipenda dai valori che la società di riferimento considera importante trasmettere e, cosa importante ma poco citata, dalle competenze che ci si aspetta tutti gli scolari debbano apprendere.

La formazione data per esempio agli Spartani era anche militare; non essendo questa facoltà molto apprezzata oggi, a giugno facciamo normalmente un esame orale e due scritti.

Nello specifico quindi, quali sono i valori che la Repubblica Italiana garantisce attraverso la scuola?

Mi viene in aiuto la nostra Costituzione, che nell’Articolo 34 riporta

“La scuola è aperta a tutti.

L'istruzione inferiore, impartita per almeno otto anni, è obbligatoria e gratuita.

I capaci e meritevoli, anche se privi di mezzi, hanno diritto di raggiungere i gradi più alti degli studi.

La Repubblica rende effettivo questo diritto con borse di studio, assegni alle famiglie ed altre provvidenze, che devono essere attribuite per concorso.”

Apertura, gratuità, impegno, uguaglianza: la nostra scuola non fa distinzioni di nessun tipo e ammette tutti, senza distinzioni legate al censo, quindi è gratuita fino ai gradi inferiori e assicura indistintamente il diritto all’istruzione anche ai gradi maggiori, ovviamente per i più meritevoli.

La scuola, mi permetto di aggiungere, è (o dovrebbe essere) puramente laica.

Abbastanza condivisibile, no? Potremmo parlare molto di quanto questi valori vengano nella pratica riconosciuti, ma almeno in teoria tutto fila liscio.

La Costituzione però esaurisce l’ambito valoriale, non quello relativo alle competenze che, come abbiamo detto, cambiano molto rapidamente e non possono essere fissate su carta.

Quest’altro discorso si sviluppa sul piano della speculazione e delle riforme.

Spunta quindi un’altra domanda, molto più complessa delle precedenti:

Quali sono le competenze di base che un cittadino Italiano, Europeo e del mondo deve avere nel 2020?

Si cercherà di rispondere non sulla base di quale materia “apra la mente”, su quale disciplina abbia una maggiore bellezza teorica o dignità storicamente riconosciuta, ma partendo dalla natura della nostra società.

Viviamo in uno stato democratico, siamo chiamati quindi ad entrare a far parte di un continuo dibattito pubblico dove, se si vuole andare in una direzione non dico giusta, ma più o meno ponderata, bisogna avere alcuni strumenti (di cui banalmente aprendo un giornale non si può non notare l’assenza).

Mi riferisco alla capacità di discutere, facoltà inderogabile che non consiste negli slogan, nello sputarsi addosso, nell’interruzione continua di una frase che ha abituato le nostre orecchie, ma dell’unione di capacità argomentative (quindi lettura dei dati), pazienza di ascoltare le opinioni altrui e soprattutto umiltà di cambiare le nostre.

Ci sarebbe richiesto, in soldoni, di mettere a tacere quella vocina comune a tutti noi che, mentre parliamo di un argomento, ci dice che abbiamo assolutamente ragione, che siamo i migliori di tutti e che l’interlocutore/nemico deve essere schiacciato.

Non è tutto: non vorrete forse andare a votare senza sapere più o meno quali sono i nostri diritti, i nostri doveri, la struttura del nostro Stato?

Questo perché, anche se si vocifera che qualcosa è stato fatto in questa direzione, per ora Cittadinanza e Costituzione ha un ruolo estremamente marginale nel curriculum di un liceale, per non parlare poi di qualche nozione di diritto o economia.

A proposito di economia, oltre che uno Stato Democratico l’Italia è pure uno Stato liberale, pertanto non è compito dello Stato darmi un’occupazione o gestire i miei beni, che sono libero di amministrare come voglio.

Che cos’è un investimento? Qual è la più vantaggiosa condotta di risparmio? A che requisiti bisogna rispondere per fondare un’impresa, per chiedere un prestito in banca?

Anche in questo caso il sistema scolastico si aspetta che acquisiremo queste conoscenze da soli, quando percepiremo reddito e dovremmo “scoprire” come utilizzarlo.

Ammesso e non concesso che questo accadrà visto che, banalmente, nessuno ci dà la più basica informazione su come è fatto il mondo del lavoro, su quali competenze richiede e quali richiederà, lasciandoci allo stato brado proprio mentre dobbiamo scegliere un percorso universitario.

Come già accennato, però, il mondo verso il quale dovrebbero prepararci non è circoscritto ai confini del nostro Paese, ma è tutta la Terra: un vastissimo panorama di istituzioni, di usanze e valori diversi, spesso antitetici ai nostri.

Possiamo inculcarli tutti ai nostri studenti?

No, non basterebbe una vita intera; quello che possiamo fare però è farli uscire dalla scuola con un’elasticità mentale, scaturita da un metodo di insegnamento comparativo e accompagnata dalla sicurezza di aver acquisito a 18 anni una conoscenza perfetta almeno dell’inglese: se l’Italia è fatta così, come sono fatti l’Europa e gli Stati che la compongono? Come sono fatti gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone?

Affrontare tutte queste tematiche è possibile solo discutendo, con le basi teoriche guadagnate, l’attualità; esercizio che funge anche da allenamento al dibattito e al rispetto.

Non dimentichiamoci, infine, che prima di essere uno Stato di qualunque tipo siamo singoli esseri umani, e l’uomo è soprattutto un animale con una vita interiore caotica (soprattutto in adolescenza) e una tendenza a fare comunità che può molto facilmente prendere direzioni sbagliate: come può l’istituzione scolastica ignorare bellamente le disordinatissime esigenze mentali, relazionali, sessuali?

Si pensa che basti mettere insieme venti persone in una classe per un certo numero di anni e tutti i problemi di natura sociale che intercorrono tra i suoi membri si risolveranno spontaneamente, mettendo a disposizione al massimo uno sportello d’ascolto e qualche sparuta conferenza.

Cosa prevede la nostra formazione per quanto riguarda tutto il resto?

I nostri programmi ci propongono vasti assortimenti di critica letteraria e filologica, di storiografia e storia della filosofia, di letterature straniere e teorie scientifiche prive di qualsiasi applicazione pratica.

Non è difficile capire quale mentalità ci sia dietro ad una tale programmazione: la credenza che la cultura (specialmente umanistica, ma non solo), abbia tanto valore quanto più sia distaccata da qualsiasi realtà tangibile, che “apra la mente” indipendentemente da come la si declina, per il solo fatto di essere tale.

Più nello specifico, vige il pensiero per cui il senso critico non si debba sviluppare con l’applicazione di nozioni filosofiche ad una discussione, ma che venga da sé appena si impara ad esporre un autore; per cui i diritti e i doveri della propria cittadinanza si imparano con la rivoluzione francese e non attraverso un suo studio comparato con l’attualità; per cui il rigore espositivo e la tendenza a relativizzare le proprie tesi, care al mondo scientifico e filologico, si possono raggiungere imparando le leggi della termodinamica o le declinazioni, senza una sperimentazione pratica in laboratorio o un’attualizzazione del metodo traduttivo.

Quantità invece che qualità, tradizionalismo invece che efficacia, autorità al posto dell’autorevolezza portano spesso gli studenti a scoraggiarsi e disinteressarsi a quella cultura che tanto ostentiamo.

Quelli che tengono duro si ritrovano con tantissime conoscenze e pochissima spinta ad applicarle al mondo reale, un po’ come un mulo che, avendo trasportato carichi pesantissimi per anni, non ha problemi a trasportare una persona ma non lo fa in modo spontaneo e aggraziatissimo.

Non è un caso, alla luce di questa interpretazione, come il nostro paese abbia il più alto tasso di analfabetismo funzionale in tutta Europa (Human Development Report 2009) e che la quantità di gente abituata a leggere cali drasticamente con l’avanzare degli anni e dell’età (dati ISTAT).

Ma è sulla formazione linguistica che si toccano i livelli più alti di sciatteria: dalle elementari fino alla maturità, la conversazione è strozzata prima dalla grammatica e poi dalla letteratura, i programmi portano i professori a dimenticarsi che le lingue si apprendono fin da bambini ascoltando, ripetendo e divertendosi, ad inculcare agli studenti moli di informazioni non efficaci, poi a sbuffare quando chi se lo può permettere va all’estero per imparare da solo.

Non stupisce quindi il nostro bassissimo livello di competenza linguistica inglese, ancora una volta il peggiore di Europa, insieme alla Spagna.

Si potrebbe obbiettare che i dati, in particolare lo studio OCSE del 2018 sulle competenze generali degli studenti, mostrino che sono proprio gli studenti del liceo, dove il metodo appena esposto si fa più sentire, a stare più o meno al passo dei loro coetanei di altri paesi, ma questo è parzialmente fuorviante.

È dimostrato da un rapporto di AlmaDiploma del 2016 come il liceo sia generalmente frequentato da una fortissima maggioranza di figli di professionisti, dirigenti, docenti ed imprenditori, classi dirigenziali e generalmente più colte di quelle operaie, i cui figli sono al più iscritti ad istituti tecnici e professionali.

Non solo, da tale rapporto risulta anche che di quei pochi figli di operai che si iscrivono ai licei tende a ripetere l’anno quasi il doppio dei loro coetanei di estrazione sociale più elevata.

L’ incredibile (nonché anticostituzionale) sperequazione all’interno della nostra scuola pubblica sarà oggetto di un altro articolo.

Che fare quindi?

Risulta evidente che la nostra scuola abbia e crei grossissimi problemi, non risolvibili semplicemente cambiando l’esame di maturità, aumentando i fondi o aggiungendo programmi di scuola-lavoro: occorre ribaltarla sotto tutti i punti di vista, dai programmi alle strutture, dalla preparazione dei docenti ai suoi aspetti più sociali.

Prima o poi la realtà, che bussa alla porta ormai da parecchio tempo, verrà a sfasciare quel salottino dove amiamo intessere le lodi della nostra brillante preparazione, e saranno dolori.

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