Una Donna, Sibilla Aleramo
- Il Dislessico
- 26 apr 2020
- Tempo di lettura: 14 min
Di Anonimo
Tra le opere di Sibilla Aleramo, il romanzo Una donna, pubblicato nel novembre 1906, occupa un posto di assoluto rilievo. Può essere definito come un romanzo di formazione, di ‘educazione’, per un pubblico che si ritrova per la prima volta a confrontarsi con un nuovo modo di concepire l’universo femminile. Quello che contraddistingue quest’opera da tutte le altre del genere è sicuramente la forza d’azione e di volontà, le riflessioni e le prese di coscienza, le nuove realtà che non rimangono mai fini a sé stesse o relegate in un foglio: ogni presa di coscienza porta con sé una conseguenza. L’Aleramo non si ferma al semplice concetto della ‘parità dei sessi’, il suo pensiero va ben oltre, cerca di rompere le catene delle convenzioni sociali. Attraverso il percorso della sua vita, passano in rassegna tutte quelle fasi che costituiscono la storia dell’evoluzione della donna, che partono dall’essere figlia per diventare prima moglie poi madre, fino alla rivendicazione del proprio ruolo semplicemente di donna, di persona, con dei talenti, delle aspirazioni aldilà degli stereotipi. Rousset la definisce confession rétrospective, la narrazione in cui il soggetto diventa autore quando ha finito di vivere la propria storia: è proprio questo il caso di Sibilla Aleramo. L’impulso primo a scrivere Una donna non era stato però solo quello di restituire un messaggio di emancipazione alle donne italiane, ma anche di risolvere così una questione personale: appena qualche mese dopo la partenza da Porto Civitanova e dall’originale atmosfera di oppressione nasce una nuova donna, sotto lo pseudonimo di Sibilla, che comincia a dedicarsi al romanzo quasi a volersi sbarazzare di un’immagine di sé ormai rifiutata, quella della persona reale, Rina, contro la quale ha faticosamente combattuto. La ricerca da parte del personaggio biografico di un equilibrio psicologico si traduce in una prosa contenuta e sobria. Man mano che le nuvole della negatività si addensano sulla protagonista, non che narratrice, lo stile si fa sempre più controllato, il più possibile dimesso e sobrio. Sibilla Aleramo descrive una crudezza per niente ostentata.
“volevo scrivere un libro che recasse tradotte tutte le idee che si agitavano in me , e che portasse l’impronta della passione, ma traendo da essa la pura essenza”
La Aleramo cerca di abbassare ogni volta i toni per rendere tanto più credibile l’atrocità delle vicende. Raccontare la storia di Rina per chi ormai l’aveva separata da sé stessa equivaleva ad abbandonarla definitivamente, e un esperimento di questo genere esigeva che l’immagine originale fosse restituita con la massima fedeltà per ottenere l’effetto quanto più catartico possibile. Di qui un romanzo ‘a circuito chiuso’, in cui la fine viene prima dell’inizio. Ne consegue che la presentazione ‘successiva’ e non ‘regressiva’ dei ricordi giustifica la volontà di un io che vuole raccontare per dare una spiegazione al lettore di ogni sua azione successiva, di ogni sua scelta.
Una donna è una biografia ma senza nomi, né di chi racconta, né degli altri. Non a caso, in un articolo sulla Gazzetta del popolo, Sibilla parlerà dell’espropriazione dei nomi a tutti i personaggi del suo romanzo:
Tutti i personaggi inclusa la protagonista erano ‘innominati’; e non dico che non sia stata una difficoltà quell’individuarli nel lungo racconto sempre soltanto con un generico: il marito, il suocero, il bimbo, il dottore, il profeta e via via. Dico che v’era là, spontanea, non voluta, la dimostrazione della nessuna importanza che hanno, per me, i nomi, e non soltanto riguardo le persone ma anche alle cose: ho infatti scritto nel Passaggio: «io non so se i nomi di cui mi servo per tutte le cose di cui parlo sono veri. Sono stati inventati da altri, tutti i nomi, per sempre […] Ma, invero, tutte le mie creature, mentre do loro la vita, e dopo che le ho mandate per il mondo, io continuo a pensarle e a vederle ‘senza nome’”
Questa affermazione è fondamentale, per comprendere fino in fondo il rapporto di Sibilla Aleramo con Rina Faccio all’interno di Una donna, in quanto arriviamo a comprendere come nel romanzo siano presenti contemporaneamente una e due donne, che si raccontano quasi vicendevolmente.
Fu lavorando per il padre che Rina conobbe il giovane ragazzo che le imporrà una duplice violenza: mentale e fisica. Le svela i tradimenti del padre e ne abusa sessualmente proprio sul luogo di lavoro. Ormai l’onore di Rina, per la famiglia, era macchiato: non c’era altra soluzione che un matrimonio riparatore. Pochi anni dopo nascerà il suo primo figlio, l’unico raggio di luce in quegli anni bui della sua vita. Il rapporto con il marito resta sempre tale e anzi peggiora di giorno in giorno; la casa dove vivono per Rina diventa una prigione. Unico svago da questa alienazione dal mondo esterno è un rapporto d’amicizia che la lega alla figura del dottore e un’attrazione verso un giovane conosciuto una sera in cui Rina e il marito si trovavano da amici. Inizia con lui un rapporto epistolare che verrà scoperto dal coniuge: questo porterà alle estreme conseguenze la sua gelosia e possessività, sfociando in una violenza tanto umiliante da indurla al suicidio. Termina così la prima parte della storia della giovane Rina, con un episodio che a posteriori, le sembra chiudere psicologicamente una fase ben precisa della sua esistenza, quella dell’infanzia prima e del dolore precoce poi. La seconda parte del romanzo risulta quella più riflessiva: si apre con il tentativo da parte del marito di recuperare il rapporto con la donna. Da questo momento inizia per lei un vero e proprio periodo di reclusione, accompagnato però, da una passione che le salverà la vita: oltre al bimbo, svago dei suoi giorni, le sue giornate saranno all’insegna di letture e fogli bianchi, sulle quali inizierà ad appuntare pensieri, riflessioni, intorno a quegli anni.
[…] mi portò a casa un grosso fascicolo di carta bianca che guardai sentendo il rossore salirmi alla fronte […] mi trovai colla penna sospesa in cima alla prima pagina del quaderno. […] E scrissi, per un’ora, per due, non so. Le parole fluivano, gravi, quasi solenni: si delineava il mio momento psicologico; chiedevo al dolore se poteva diventare fecondo […] Seguì un intenso, strano periodo, durante il quale non vissi che di letture, di meditazioni e dell’amore di mio figlio
Un grosso fascicolo di fogli ed una penna: è così che inizia il cammino per la liberazione di Rina, così che avviene la nascita di Sibilla. Emblematico è il fatto che è lo stesso marito a porle dinanzi dei fogli per scrivere, senza considerare che gli stessi fogli l’avrebbero, invece, aperta ad una totale libertà. Per la giovane donna, scrivere assume un ruolo importantissimo nello sviluppo della coscienza di sé, il che viene anche percepito dal bambino, che quando vede che la mamma piange, la implora di scrivere.
Mamma, mamma, non piangere; scrivi, mamma, scrivi…io sto buono; non piangere…! […] Scrivere? La cara piccola anima intuiva anche questo, la necessità per me di tuffarmi come mai nel lavoro e nel sogno. Non era geloso, mio figlio, non era prepotentemente egoista nel suo affetto: pensava alla mia salvezza, ai bisogni per lui oscuri del mio essere complesso, non pretendeva di poter riempire lui solo tutta la mia vita.
Scrivendo, Rina sviluppa delle riflessioni sulla condizione della donna che la portano a constatare come la donna stessa sia in parte responsabile della corruzione dei valori sociali perché troppo passiva.
E incominciai a pensare se alla donna non vada attribuita una parte non lieve del male sociale. Come può un uomo che abbia avuto una buona madre divenir crudele verso i deboli, sleale verso una donna a cui dà il suo amore, tiranno verso i figli? […] E come può diventare una donna, se i parenti la danno ignara, debole, incompleta, a un uomo che non la riceve come sua eguale; ne usa come d’un oggetto di proprietà; le dà dei figli coi quali l’abbandona sola, mentr’egli compie i suoi doveri sociali […]?
Questa scena sembra riconciliare la scrittura con la maternità, due concetti altrimenti opposti in quanto, la prima, che coincide con la ricerca dell’indipendenza, non si accorda con il fatto di essere una madre secondo il modello tradizionale.
La svolta avviene quando si trasferiscono a Roma. Qui Rina entra in contatto con una realtà del tutto nuova per lei, arrivano dal mondo parole nuove e ‘aspre’, quali, femminismo, emancipazione, lotta. Rina si chiede come mai in Italia ci fosse una così forte mancanza di un istituto che disciplinasse i tentativi e le affermazioni femministe. Ebbene, arriva a comprendere, in pieno, che l’unica possibilità per il capovolgimento del sistema tradizionale risieda in un cambiamento del comportamento e della mentalità della donna stessa, che deve uscire dal ruolo passivo e cominciare ad agire.
Dacché avevo letto uno studio sul movimento femminile in Inghilterra e in Scandinavia, queste riflessioni si sviluppavano nel mio cervello con insistenza. Avevo provato subito una simpatia irresistibile per quelle creature esasperate che protestavano in nome della dignità di tutte, sino a recidere in sé i più profondi istinti, l’amore, la maternità, la grazia. Quasi inavvertitamente il mio pensiero s’era giorno per giorno indugiato un istante di più su questa parola: emancipazione.
La giovane scrittrice è sempre più interessata alle questioni sociali del suo tempo, e queste furono il soggetto di numerosi articoli. La vita di Rina, seppur nella segregazione della sua casa, sembra essersi riempita con le parole, quelle che scriveva e quelle che leggeva, e ciò le dava speranza di un futuro migliore, diverso, soprattutto riguardo il rapporto col marito, che non ostacolava questa sua passione, ma la incoraggiava. Tuttavia, questo dura poco: Sibilla narra che quando un giorno gli racconta entusiasta di alcune novità circa il movimento, lui prende e brucia nel camino tutti i fogli che Rina aveva tra le mani e sul tavolo. Per la giovane donna è un momento amaro, ma anche ulteriormente rivelatore della meschinità del marito. Rina continua ad inviare articoli a varie riviste difendendo il movimento femminile dalle critiche e dalle ironie maschili, continua a scrivere, ormai consapevole di aver ritrovato il proprio senso critico «dopo una lunga paralisi» rappresentata dall’oppressione del matrimonio.
«Vivere! Ormai lo volevo, non più solo per il mio figlio, ma per me, per tutti»
Inizia per Sibilla il periodo femminista e socialmente impegnato. D’ora in avanti si susseguono gli avvenimenti necessari a questo preciso compimento, il lavoro in redazione, la pubblicazione su diversi giornali femminili e non, gli incontri con personaggi portatori di ideali. L’autorità del marito non diminuisce; innanzitutto, è irritato nel vedere affermarsi le possibilità d’indipendenza della moglie, e poi «non riusciva a formarsi per suo conto un programma quotidiano e si volgeva astiosamente ad osservarmi, promettendosi certo di farmi sentire la propria autorità al primo accenno d'indipendenza». Rina critica aspramente il punto di vista del cattolicesimo, che vede la figura femminile, come devota alla famiglia e oggetto di sacrificio sotto il controllo del marito. La concezione femminista non è per la scrittrice la semplice rivendicazione di quei diritti che erano perseguiti dai movimenti femminili ma soprattutto sua intenzione è riformare la mentalità maschile e creare quella femminile: Sibilla parlerà di questa autonomia femminile non come raggiungimento ed emulazione del modo di fare maschile ma di un’autonomia propria ed unica della donna, scevra da ogni identificazione col mondo virile. Esperienza per Rina fondamentale, fu la visione di una rappresentazione teatrale, ossia, la Casa di bambola di Henrik Ibsen.
Una sera a teatro la vecchia attrice, nel suo palco, aveva avvertito due lagrime brillarmi negli occhi. Non avevo mai pianto per finzione d’arte. Sulla scena una povera bambola di sangue e di nervi si rendeva ragione della propria inconsistenza, e si proponeva di diventar una creatura umana, partendosene dal marito e dai figli, per cui la sua presenza non era che un gioco e un diletto. […] Ero più che mai persuasa che spetta alla donna di rivendicare sé stessa, ch’ella sola può rivelar l’essenza vera della propria psiche, composta, sì, d’amore e di maternità e di pietà, ma anche, anche di dignità umana!
E si rivedrà interamente nelle parole di Nora al marito, verso il finale dell’opera; parole rivoluzionarie:
Io devo essere affidata unicamente a me stessa, se voglio poter dar conto di me stessa e di chi m’è intorno. Perciò non posso restare più oltre presso di te. […] Prima di tutto credo […] ch’io sia un essere umano, come te, né più né meno, o, infine, voglio procurare di diventarlo. […] Ma io non posso più contentarmi di ciò che dice la maggioranza e di ciò che è scritto ne’ libri. Devo riflettere da me stessa su certe cose e rendermele pienamente chiare
Per Rina, le parole di questa donna, le sue più nascoste volontà, non dovettero essere nuove; anzi, in esse trovavano naturale e piena rispondenza le sue idee sulla donna. Tuttavia, tra Nora e Rina vi è una differenza che può essere rintracciata nel fatto che Nora rivendicava un libero esame individuale per voler rintracciare la propria dimensione perduta attraverso ogni abitudine; Sibilla deve solo mantenersi fedele a un’identità già incontrata dentro di sé, cui va data ora possibilità di perdurare e di articolarsi. Andar via per scoprire il mondo, non solo quello raccontato nei libri, ma la vita vera e diventare Una Donna. Casa di bambola servì a definire un nuovo tipo femminile, il ‘tipo-Nora’, appunto non madre, non prostituta, ma solo donna. Sibilla applica la costante di Ibsen, ossia la fedeltà alla vita e l’obbedienza di ciascuno alla propria legge, e diventa il ‘tipo-Nora’. Finalmente il tempo per Sibilla ricomincia a scorrere con un senso, fin quando, questo periodo si conclude con il ritorno a Porto Civitanova ponendo fine al momento del primo incerto delinearsi di una nuova coscienza di sé. Seguirono vari momenti tra i due, fatti di violenze, di accuse, di rivendicazioni, di continui rimandi a eventi del passato che avevano segnato il loro matrimonio, fino alla minaccia più grande, in seguito alla proposta di Rina di una separazione, di strappare il figlio alla madre. Un dolore forte pervade l’animo della donna; sarebbe riuscita a pagare un così alto prezzo per la sua libertà? Era arrivato il momento di staccarsi da una vita che non era più la sua, era arrivato il momento di liberarsi dalla morsa del passato e di quelle scelte che le avevano fatto vivere una vita non sua, con ogni conseguenza, anche la più drammatica. Per la prima volta, Sibilla, arrivando a tali considerazioni, sente interamente la sua «indipendenza morale, mentre a Roma, avevo sempre conservato, in fondo, qualche scrupolo nell’affermarmi libera, sciolta d’ogni obbligo verso colui al quale la legge mi legava». La studiosa Alba Morino osserva come dalla sofferenza, che nasce nel raggiungere la consapevolezza della propria coscienza femminile, si matura il diritto di sé. A sua volta il diritto di sé di una donna deve lottare contro un malinteso senso della maternità vissuta come annullamento della propria individualità. A questo punto, per rivendicare e affermare la propria individualità è indispensabile un incessante battaglia contro gli altri, ma anche contro la propria debolezza, che nasce dalla necessità di difendere giorno per giorno la propria conquistata consapevolezza. Fra i tanti mezzi possibili, Rina sceglie la scrittura, come traccia di sé, liberazione, combattimento solitario contro se stessi, arma per difendere, attaccare, pensare, mezzo per parlare con gli altri, ma anche con se stessi. La donna elabora una serie di riflessioni durante una notte insonne, che più tardi, considererà il ‘nucleo generatore di Una donna’, ma che sono anche la giustificazione morale della scelta, che avrebbe presto compiuto, di lasciare il figlio oltre che il marito.
Perché nella maternità adoriamo il sacrifizio? Donde è scesa a noi questa inumana idea dell’immolazione materna? Di madre in figlia, da secoli, si tramanda il servaggio. È una mostruosa catena. Tutte abbiamo, a un certo punto della vita, la coscienza di quel che fece pel nostro bene chi ci generò; e con la coscienza il rimorso di non aver compensato adeguatamente l’olocausto della persona diletta. Allora riversiamo sui nostri figli quanto non demmo alle madri, rinnegando noi stesse e offrendo un nuovo esempio di mortificazione, di annientamento. Se una buona volta la catena si spezzasse, e una madre non sopprimesse in sé la donna, e un figlio apprendesse dalla vita di lei un esempio di dignità?
È chiaro per Sibilla che questa catena del sacrificio, che lega le generazioni, deve essere necessariamente spezzata. In nessun altro brano come in questo si comprende il senso del titolo del romanzo: una donna è colei che rivendica la dignità di vivere rifiutando l’etica imposta, o autoimposta, del sacrificio della sua persona.
Per quello che siamo, per la volontà di tramandare più nobile e più bella in essi la vita, devono esserci grati i figli, non perché, dopo averli ciecamente suscitati dal nulla, rinunziamo ad essere noi stessi. […] Quando il figlio saprà che la madre non ha rinunciato per lui alla sua parte di sole, di amore, di lavoro, di lotta, che ha rispettato in se stessa i diritti umani, sarà a sua volta essere intrepido nella conquista del bene, a sua volta non troncherà la sua vita miseramente, per un’astratta quanto falsa concezione del dovere dei genitori verso i generati.
In tutto il romanzo la protagonista costruisce la sua identità, in negativo, su quella della madre, agendo come la madre non ha saputo agire, e diventando quello che la madre non ha saputo essere. Sibilla si domanda perché la madre non avesse messo in atto le sue intenzioni più profonde, e riesce a trovare una risposta solo pensando al timore della madre di sentirsi un giorno dire «Ci hai abbandonati!». In seguito all’incontro con una lettera mai spedita di questa che annunciava le sue prossime intenzioni, del tutto analoghe a quelle che la protagonista stava per compiere, scrive:
Non avevo mai sospettato che mia madre si fosse trovata in una simile situazione. […] Avessi potuto sorprenderla in quella notte, sentire, dalla sua bocca, la domanda: “Che devo fare figlia mia?” e rispondere anche a nome dei fratelli: “Va’, mamma, va’!” Sì, questo le avrei risposto; le avrei detto: “Ubbidisci al comando della tua coscienza, rispetta sopra tutto la tua dignità, madre: sii forte, resisti lontana, nella vita, lavorando, lottando. […] Ahimè! Eravamo noi, suoi figli, noi inconsci che l’avevamo lasciata impazzire.
Dunque, scrive l’Aleramo: «La buona madre, non deve essere come la mia, una semplice creatura di sacrificio: deve essere una donna, una persona umana». In questa frase, viene riassunto il nucleo centrale e fondante dell’ideologia dell’autrice. Distingue la figura di madre-moglie da quella di donna, che esce fuori dalle convenzioni sociali che annullano ogni pretesa egoistica di rivendicazione personale e di essere umano. Rina era ormai decisa a prendere esempio dagli errori della madre e a partire sacrificando il figlio. Inizia così a farsi sentire quella lotta intestina tra due emozioni totalmente opposte: la voglia di libertà e l’amore materno. Allontanarsi da suo figlio e dunque dal suo essere madre, pur di non provare ribrezzo per sé stessa come donna; ecco cosa fece Rina. Ed è proprio rimanere nella memoria di suo figlio il vero intento di Sibilla con Una donna. Sibilla smetteva di essere madre di suo figlio per essere madre del nuovo pensiero femminista, madrina della ‘donna nuova’.
Inutile dire che il romanzo suscitò considerevoli reazioni di appoggio e di opposizione. Coloro che si opponevano al romanzo difendevano l’importanza della maternità rispetto alla rivendicazione personale. Tuttavia, al contempo, ci furono anche molte reazioni d’appoggio da parte della critica, tra cui ricordiamo soprattutto l’opinione di Graf e Pirandello.
Graf fu il primo e più accurato recensore di Una donna, il quale fece un appunto fondamentale riguardo la discussa decisione di Sibilla:
Siccome io credo che il primo fra tutti i doveri sia il dovere verso se stesso, così, in un certo senso, a questa soluzione non ho nulla da obiettare; ma ciò non vuol dire che tutto quanto la nostra donna dice e fa mi paja giustificato abbastanza: giustificato abbastanza, intendiamoci bene, sotto l’aspetto della verisimiglianza psicologica e di quella che fu detta morale letteraria. […] Forse mi inganno, ma pare a me che data quella condizione di cose, e data quella donna, e quella madre non ci fosse se non una soluzione interamente plausibile: la fuga di lei insieme con il bambino. Dopo, la giustizia o l’ingiustizia degli uomini, avrebbe fatto, o tentato di fare, ciò che le fosse piaciuto: questo non apparteneva più, veramente alla storia.
Una critica di tal genere viene mossa anche da Pirandello, il quale, aveva recensito Una Donna nella Gazzetta del Popolo di Torino del 27 dicembre 1906. Egli muove all’Aleramo l’accusa di un eccesso di verità e di rinuncia ad una soluzione ‘teatrale’ che certamente avrebbe aggiunto forza al racconto; scrive:
Ma io avrei voluto che a questo punto Sibilla Aleramo avesse aggiunto qualche cosa alla verità dei fatti avvenuti, un’ultima scena, che non solo avrebbe chiuso più artisticamente il romanzo, ma sarebbe stata di somma efficacia per il suo segreto intendimento morale e sociale. Come che la protagonista non partisse sola; che il figlio le fosse realmente strappato, perché potesse serbare la memoria d’una violenza non commessa da lei, fuggendo, ma dalla legge iniqua
Si trovavano dunque d’accordo nel pensare che la scelta di Sibilla di partire, fosse indispensabile; tuttavia, le rimproveravano il non aver portato con lei il figlio. Certamente, gli sarebbe stato comunque tolto, data la legge del tempo, ma almeno avrebbe fatto fino alla fine il suo dovere di madre; il bambino, non sarebbe restato con la madre a causa di un atto di crudeltà, derivante dall’applicazione della legge che glielo avrebbe ‘strappato’ non a causa dell’abbandono dalla madre stessa.
La formazione e il processo mentale di Rina investono chi si trova ad immergersi nella lettura di quest’opera-manifesto del femminismo, lettura che, nonostante l’intero secolo passato dalla pubblicazione, si connota tutt’ora di una fortissima attualità.
Ma questo, probabilmente, Sibilla Aleramo, non lo avrebbe voluto.
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