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Un Esperimento Anti Ideologico

  • Immagine del redattore: Il Dislessico
    Il Dislessico
  • 2 giu 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Di Lorenzo Artegiani

Se c’è una tendenza contro cui, in una democrazia, si deve fare fronte comune a prescindere dalle proprie posizioni e convinzioni, è l’ideologia.

Attenzione, non mi riferisco all’insieme molto variegato di interpretazioni che le scienze politiche e sociali hanno fornito di questo termine, ma al suo significato più comune, banale e intuitivo.

Secondo questa lettura l’ideologia è un insieme di credenze, opinioni e valori che, formulati senza un grande sforzo di analisi concreta dei fatti, trovano spazio in una determinata nicchia della società.

È evidente che la realtà non gode mai di una sola lettura, quindi la sua interpretazione non può che essere condizionata dal vissuto di ognuno di noi. Per fare un esempio: un libero professionista che vive in centro città, un operaio che vive in periferia e un dipendente statale di un piccolo paese non vedranno, probabilmente, la vita nella stessa maniera e di conseguenza daranno valutazioni diverse dei fatti che accadono.

Queste differenti prospettive portano negli spazi di discussione pubblica a più schieramenti, mutuati dalla percezione di un’esigenza o di un’altra per la collettività ma anche a vari modi di raccontare e raccontarsi il mondo. Tale processo risulta inevitabile e può essere anche salutare: siccome nessuno possiede la verità assoluta, l’unico modo per andare consapevolmente verso il futuro è raccogliere quante più opinioni ed esperienze diverse.

È estremamente importante che ogni persona dotata di ragione si sforzi proprio in questo senso, perché solo il dialogo basato su fatti oggettivi (o almeno riconosciuti come tali), può permettere alle nostre idee di evolversi con i tempi e non marcire.

Un’idea marcisce proprio quando taglia i ponti con l’oggettività, quando, invece di offrire una possibile interpretazione a dei dati, inizia a fabbricare dati da sé, rifiutando ogni tentativo empirico di inquadrarli.

Se si arriva a questo punto l’idea diventa sistema ideologico, qualcosa di totalmente parallelo ed inconciliabile con il mondo che tutti possiamo misurare che, come ogni finzione che si rispetti, tenterà di fagocitare la realtà ed egemonizzarla (qualcuno ricorderà Tlon di Borges).

L’ideologia non è più proposta, è dottrina, non fa informazione ma propaganda, non divide le persone in chi la ritiene valida e chi no, portandole al confronto, ma in chi la segue e chi no, fomentando divisione e scontro.

Lo scontro non deve essere per forza violento per definire un’ideologia, così come il dialogo non deve per forza essere civile; è del tutto possibile tracciare tra noi ed i nostri interlocutori un solco che nessuno dei due potrà sorpassare, e farlo senza la minima apparenza di conflittualità: non appariscente come una discussione accesa, ma molto più pericoloso.

Finora mi sono mantenuto su un piano molto astratto, proprio per non incappare in esposizioni troppo soggettive, ma va detto che il discorso sembra un po’ fumoso, almeno per adesso.

Proprio per risolvere questo problema farò con voi una specie di esperimento; perderò di certo in imparzialità ma forse ci guadagnerò in termini comunicativi.

Sarà un po’ faticoso ma vi prometto che ne uscirete migliori di come siete ora!

Abito in questa scuola da cinque anni e di tutte le crociate intellettuali che ho visto fare ce n’è una che non è mai appassita: la lotta alla scuola paritaria, accusata (vedremo se correttamente) di classismo.

“classismo”, questa sì che è una brutta parola; vuol dire “discriminazione tra classi sociali”.

Possiamo definire classista, per esempio, la politica sanitaria statunitense, che considera la salute appannaggio di chi se la può permettere; andando un po’ più indietro nel tempo, possiamo tacciare di classismo l’eccidio sovietico dei contadini possidenti, perseguitati a partire dal 1924 in quanto “nemici della Rivoluzione”, ma non divaghiamo.

La scuola paritaria è un ente privato che, secondo l’art. 33 della Costituzione “ha il diritto di istituire scuole ed istituti di educazione”, senza costi per lo Stato, purché si adegui alle disposizioni della Repubblica in merito all’istruzione.

Non avendo a disposizione corpose sovvenzioni, le scuole private si finanziano attraverso un sistema di rette più o meno oneroso che le famiglie degli studenti devono versare all’istituto, laddove la scuola pubblica, completamente in mano alla Stato, è priva di costi aggiunti, salvo le spese per i libri e un contributo volontario.

Questa è la nostra prima osservazione: intuitivamente l’accusa di classismo regge, questo perché, di fronte ad un quasi monopolio dell’istruzione gratuita (anche se in realtà la paghiamo tutti con le tasse), chi si fa pagare soldi in più potrà apparire avido, opportunista o almeno elitario.

La prospettiva di dover pagare dei privati per un servizio così fondamentale risulta quindi già fastidiosa per qualcuno, se aggiungiamo il fatto che la maggior parte delle scuole paritarie sono cattoliche, tutte le manifestazioni di contrarietà, anche astiose, non suscitano sorprese in una scuola di tradizione socialista come la nostra e c’è da confessare che fratucci e clericali non suscitano grande simpatia neanche a chi scrive.

Ma veniamo alla verifica sperimentale: quanto c’è di vero e quanto di ideologico in tutto questo?

Ad una superficiale analisi, che poi è quella che troverete nella maggior parte delle testate giornalistiche, risulta tutto corretto.

Secondo uno studio ISTAT del 2017, “differenze strutturali tra scuole statali e paritarie”, la differenza di reddito medio tra gli iscritti a queste due tipologie di scuola oscilla tra i 15 mila euro nelle scuole medie e i 4 mila nell’ultimo anno di liceo, ovviamente a sfavore della pubblica.

C’è anche un altro fatto interessante: nel nostro Paese sussiste un ulteriore differenza economica tra le paritarie laiche e quelle religiose, mediamente ancora più “elitarie”.

Una vera manna per tutti noi mangiapreti!

Ma c’è una grossa trappola in tutta questa storia, che viene proprio dall’accorpare tutte le scuole pubbliche e tutte le private, senza considerare un altro tipo di discriminazione, quella tra scuole pubbliche e scuole pubbliche.

Ora, non devo essere io a spiegare come la discriminazione sul settore pubblico sia decisamente più grave di quella all’interno di servizi privati, non sottoposti ad alcun vincolo di gratuità.

Vediamo come stanno le cose anche su questo fronte: ci viene in aiuto uno studio OCSE-PISA del 2018, che analizza tra le altre cose il livello di integrazione scolastica fra diverse classi sociali, distinguendo le pubbliche e le private tra un valore di 0 (massima integrazione) e 1 (massima segregazione).

Il risultato, sul suolo italiano, è estremamente controintuitivo: la stragrande maggioranza della segregazione avviene infatti tra scuole Statali, dove si verifica da anni un processo di selezione spontanea tra istituti “per ricchi” e “per poveri”; non dovete fidarvi di me, lascio tutti i riferimenti alla fine dell’articolo.

Andando più nello specifico questo classismo vive soprattutto tra licei e istituti tecnico/professionali, soprattutto nel liceo classico possiamo notare una notevole omogeneità nelle classi sociali degli studenti, in maggioranza figli di liberi professionisti ed imprenditori ad alto reddito; i figli di operai non solo sono pochi, ma in media ripetono più spesso l’anno.

Se ci guardiamo un po’ intorno non risulta nemmeno così strano: quanti figli di operai ci sono nella nostra scuola? In quanti abitano nelle periferie?

Personalmente ho conosciuto ben pochi ragazzi provenienti da famiglie a basso reddito, questa scarsità si può spiegare sia con la posizione del Mamiani in un quartiere benestante, ma soprattutto considerando una serie di fattori legati al declino culturale del nostro paese, troppo lunghi per essere affrontati qui.

Torniamo allora al nostro esperimento, dando le dovute conclusioni: da anni noi studenti, accompagnati da alcuni professori e da una grossa fetta di opinione pubblica, additiamo come classisti degli enti privati, quando se ci informassimo e cercassimo i sintomi della disuguaglianza, non avremmo che da guardarci allo specchio.

La caratteristica di questa affermazione è che si tratta di un dato scientifico, revisionabile e criticabile con altri dati contrastanti, ma non sulla base delle vostre convinzioni.

Sono sicuro che alcuni di voi avranno una certa sensazione di disagio adesso, come se mancassero i punti fermi che finora vi hanno accompagnato.

Il mio intento era proprio questo.

Quella sensazione, che ho spesso provato anch’io, è la prova delle nostre ideologie; mantenerle non può essere il nostro comportamento, smontarle, sezionarle, rileggerle e confrontarle è imperativo.

Link Utili

per altre informazioni vedere i collegamenti al precedente articolo

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