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Dove va il Mamiani?

  • Immagine del redattore: Il Dislessico
    Il Dislessico
  • 2 giu 2020
  • Tempo di lettura: 5 min

Di Eduardo Bifulco

Finisce un anno significativo, primo del nuovo decennio, pandemia, quarantena, doppia autogestione, secondo anno senza viaggi d’istruzione, si giunge a chiedere cosa vogliamo dal nostro liceo?

Cosa ci aspettavamo, e cosa ci aspettiamo adesso?

Cosa siamo, infine, noi del mamiani?

Pensare al liceo nostro non è mai in realtà uno spreco di tempo, un fatto improduttivo, non si tratta di una semplice istituzione, non è un gruppo di professori e studenti, vorrebbe essere di più. Pensare al mamiani significa sempre ripensare il mamiani: chiedersi ancora di che cosa è simbolo.

Perché il mamiani-simbolo non è solo un efficace elemento di marketing, ciò che rappresenta è anche, e forse sopratutto, una mano stretta intorno alla nostra gola, un paradigma passato, trapassato, un peso.

Esiste un liceo reale, che in verità è molto misero e di cui discuteremo dopo, e un liceo ideale, il mamiani delle occupazioni e del ‘68, che ci chiama alle sue glorie, magari queste ci piacciono o le critichiamo, ma restano nella mente dei nostri genitori, del quartiere, di Roma, forse addirittura dell’opinione pubblica nazionale. Dobbiamo avere il coraggio di ammettere che non esiste più.

Com’è nato? E com’è morto?

Il liceo è fondato addirittura nel 1885, per quasi quarant’anni vaga di sede in sede fino al 1923, quando gli viene assegnata quella attuale, il primo edificio in Italia ad essere costruito appositamente per ospitare una scuola: le aule sono progettate per essere aule per la prima volta, c’è una sala professori, cortili, terrazzine. Fino agli anni ‘40 e ‘50 però l’ambiente scolastico rimane quello filo-cattolico della borghesia romana. Inutile negare che siano cambiate troppe cose per fondare la nostra eredità così lontano.

A noi piace molto di più il ruolo assunto nella primavera del 1968: tra il 15 e il 16 marzo il mamiani è il primo liceo d’Italia ad essere occupato, il fatto crea scalpore, dieci giorni dopo (26 marzo) si tiene la prima assemblea studentesca legalmente autorizzata della storia italiana, pochi mesi dopo (10-11 dicembre) il liceo è di nuovo occupato e stavolta il ministro dell’istruzione in persona, onorevole Fiorentino Sullo, si trova costretto ad aprire un dialogo con gli studenti. Il 5 aprile dell’anno successivo, a poco più di un anno dalla prima occupazione, il parlamento accetta la proposta del ministro di riforma l’esame di maturità e concede il diritto di assemblea in orario scolastico a tutti i licei della nazione.

Che bella cosa la protesta costruttiva! Che gioia il chiedere e ricevere…

Quante altre meraviglie poi negli ultimi cinquant’anni: mamiani miglior liceo d’Italia così a lungo, leader dell’innovazione didattica, ospitiamo vari musei e collezioni di prestigio, l’ultimo (il museo-laboratorio Lombardo Radice, quella mistica e un po’ romantica aula di matematica) inaugurato appena nel 2010, iniziative, certamen, il giornale scolastico, il collettivo autorganizzato.

Però che gente è quella che vediamo per i corridoi oggi?

Gente peggiore, questa è la verità… basta ricordare, per i pochi che in realtà possono, l’autogestione di cinque anni fa: la maggioranza dei corsi era fatta dagli studenti, c’era “letteratura giapponese”, origami, zumba, assurdità indimenticabili, però noi stessi volevamo parlare a noi stessi, e adesso? Se non fosse per quella persona formidabile e instancabile che è la nostra rappresentante d’istituto quest’anno sarebbe stata un’autogestione estremamente noiosa, e la prossima lo sarà quasi certamente. Nonostante un lavoro organizzativo eccezionale, difficilmente eguagliabile, Agnese Zingaretti non ha ottenuto altro che adulti, esterni, per quanto si sia parlato di cose concrete, fatti romani, quanti di noi hanno recepito? Quanti tra di noi hanno l’ossessione dei poveri? Della periferia? Del degrado? Della valorizzazione di suolo pubblico e di attività civili? Chi al liceo nostro fa politica? Non chi ne parla, ma chi la fa?

E come se non bastasse quest’anno siamo rovinati giù dal podio nella classifica delle migliori scuole della regione… da primi a ottavi. Fatto molto triste, allarmante per i nostri adulti, professori e preside per primi, e forse, in parte non indifferente, colpa loro, ma a noi che cosa resta? Che resta da fare?

Andiamo (andavamo, si spera che a settembre torneremo ad andare) in una scuola che è una rovina, infestata di glorie passate, una vera colonna traiana, che i fatti ce li ha scolpiti nella propria pietra e che guarda i tempi decadere e sterilizzarsi.

Bisogna dare la colpa a qualcuno se il mamiani è così poca cosa nel 2020? Tanto noiosi i suoi studenti, i loro passatempi, tanto miseri e diligenti, tanto preoccupati dei fatti propri? Ci sono dei conti da regolare? Certo! Con tutti voi! È degli studenti la colpa! Proprio tua che leggi, e del tuo gruppo di amici, e della classe, e dell’altra classe con cui ci si conosce, di tutte le persone che incontrerai a ricreazione.

Esiste tra i 1200 studenti nostri compagni una massa informe, inerte, indifferente e ignara (che probabilmente non leggerà queste righe, ma che nondimeno va accusata) che vive la propria adolescenza dormendo, ed è la larga maggioranza senza dubbio, che aspetta di crescere e non crescerà mai, perché significherebbe fatiche e frustrazioni. Odiate dunque chi alle assemblee siede in fondo, o non entra neanche in palestra, chi alle cose rimane indifferente.

Un nostro politico, italiano, di troppi anni fa per citarne il nome, diceva che gli indifferenti sono “il peso morto della storia”, dal Dislessico non proponiamo una rivoluzione, ma esigiamo una presa di coscienza collettiva, uno ad uno dovete guardarvi intorno e chiedere cose, parlare di scuola e di pratiche didattiche, di accesso ai laboratori, bisogna fare al mamiani una politica spicciola che è stata la linfa vitale del mamiani-simbolo: battetevi per avere accesso a quegli infiniti scaffali della biblioteca (quanti approfondimenti di letteratura ne verrebbero fuori? Quanti romanzi conserviamo a impolverarsi?), e se i libri sono vecchi, sono volumi dell’800, e ci venisse detto che non vanno toccati, bisogna battersi per avere anche quelli, per rovinarli e consumarli, ad oggi ottenere un libro dalla nostra stessa scuola è un’odissea! Oppure, dei libri chi se ne frega!, aiutate il gruppo ambiente a stampare felpe e produrre borracce sostenibili, a bandire la plastica, ad organizzare l’orto, organizzate più tornei sportivi, più feste d’istituto, gare di poesia e di freestyle, concerti, ricostruiamo l’auletta autogestita e diamo senso a tutti quei graffiti, andiamo al cineforum, bisogna ricominciare a usare l’aula di musica, quel pianoforte in aula magna che ormai è del tutto scordato (e quante decine di studenti studiano pianoforte…), scrivete al Dislessico! Leggete il Dislessico! Noi stessi redattori dobbiamo impegnarci delle cose reali, e chi scrive è per primo colpevole, potremmo discutere articolo dopo articolo di quello che studiamo, ma ancora di più dell’infinità di cose ben più importanti che non studiamo!

Organizzatevi in prima persona, trovate qualcosa che vi piaccia e diffondetelo contro l’ignavia dei vostri compagni, e poi soprattutto interessatevi di ogni cosa nasca dalla mente di un coetaneo: sarà imbarazzante, umiliante magari, e bisognerà essere terribilmente arroganti per continuare e affermarsi ma in questo modo s’impara tutto ciò che la scuola dei professori non insegna. Dobbiamo fondare una scuola di studenti!

È questo il punto fondamentale, in sostanza: quanti sono ormai certi che andare al collettivo un pomeriggio della settimana sia una perdita di tempo, che bisogna studiare, troppi compiti, troppe interrogazioni. Andrete male comunque perché a casa ci divora il vuoto, la procrastinazione, la nullafacenza, la chiave per trovare la “voglia di fare” è essere pieni di vita, organizzarsi con gli altri, con la classe, con la scuola, in modi innumerevoli. Fate e vorrete fare ancora, organizzate e sarete voi organizzati, non ingannatevi dicendo che di altre attività non avete bisogno, sono tutto ciò che conta!

Crescere significherà, per ognuno di noi, crescersi.


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