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Sonatine di Takeshi Kitano

  • Immagine del redattore: Il Dislessico
    Il Dislessico
  • 26 apr 2020
  • Tempo di lettura: 2 min

Di Giacomo Giannitelli

Sonatine è il primo film che ha reso celebre il regista giapponese Takeshi Kitano al pubblico europeo, presentato al festival di Cannes nella categoria “un certain regard” ha riscontrato immediatamente il gradimento di pubblico e critica per il suo stile profondamente personale e particolare, diverso sicuramente dal modo canonico di fare cinema in occidente. Il regista rielabora il filone dei gangster movie ma non ricorre mai ai topoi tradizionali del genere, affronta la tematica rielaborandola in base alla sua particolare visione della criminalità giapponese, la yakuza.

La pellicola racconta la storia di Murakawa (Takeshi Kitano), un vecchio criminale, a cui viene affidato un ultimo incarico, andare ad Okinawa e occuparsi di una guerra fra bande insieme a un gruppo di giovani delinquenti; fin da subito si accorge di essere stato tradito e per questo scappa in una casa isolata, dove passerà prevalentemente il tempo sulla spiaggia tra scherzi e giochi.

Il film mantiene una coerenza poetica che investe tutti gli ambiti, la storia è semplice, i dialoghi scarni ed essenziali, ridotti allo stretto necessario, a raccontare infatti non sono le parole ma gli sguardi e le espressioni dei personaggi. Gli stessi aggettivi possono descrivere la colonna sonora, valore aggiunto del film che si amalgama perfettamente con le riprese, e alla scelta delle ambientazioni che rispettano la filosofia cinematografica del regista; non ci sono mai eccessi cromatici e la quasi totalità del film è ambientata in un non luogo, dove il tempo è fermo e Murakawa (Takeshi Kitano) sembra impassibile al suo destino già scritto, predetto da un sogno che pur rivelando il finale del film aumenta la tensione narrativa e l’angoscia, derivata dalla totale indifferenza o accettazione del terribile epilogo. Anche i momenti di violenza sono coerenti con il registro stilistico adottato, il realismo delle riprese non esalta né condanna le azioni dei personaggi, si limita ad osservare con distacco e disillusione la corruzione morale della società giapponese; gli stessi attori sono fermi in pose plastiche, quasi scultoree, che non denotano una partecipazione emotiva alle azioni di cui si macchiano. L’unica possibilità di scalfire questa apparente apatia del protagonista è rappresentata dall’amore per una giovane prostituta, Myuki (Aya Kokumai), incapace però di strappare Murakawa dal suo inguaribile taedium vitae, che si manifesta esattamente come descritto dal poeta latino Lucrezio e che traspare chiaramente dall’ironia amara del protagonista.

Il cinema orientale dimostra di avere un approccio alla narrazione che risulta nuovo a uno spettatore occidentale, i canoni, i registri, i personaggi non sono influenzati dal sostrato culturale a noi conosciuto e per questo appaiono così originali e diversi in tutti i loro aspetti; i personaggi non sono riconducibili a nessun archetipo narrativo e le dinamiche che governano il divenire del racconto sono a noi estranee e destabilizzanti.

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