Il Matematico
- Il Dislessico

- 2 giu 2020
- Tempo di lettura: 4 min
Di Andrea Rinaldi
In un ufficio striminzito stava appollaiata una sedia girevole scorticata, con cautela riposta sotto una scrivania polverosa. Sul piano bianco erano anarchicamente sparse centinaia di fogli, arrese all’entropia del mondo, ognuno di essi era coperto da scarabocchi di numeri e problemi che raccontavano una storia. Negli unici punti della scrivania che si erano salvati dall’inarrestabile avanzata di quell’orda di cellulosa stavano un cumulo di libri, un posacenere pieno e un computer che portava sullo schermo una patina di sporcizia vecchia ormai qualche anno. I cassetti erano cimiteri di penne e calcolatrici, ma sotto le decine di salme di plastica riposava una vecchia foto preziosa scattata da una Polaroid. Un ragazzo con una grande passione per la matematica e i polmoni ancora sani con una bellissima compagna, col sorriso e i capelli di fuoco. Il Matematico la stava guardando ancora una volta, ma aveva finito le lacrime da versarci sopra e non poteva commentarla in altro modo che non fosse un’occhiata fredda e stoica, piena di rimpianti, di rimorsi, di sensi di colpa nascosti sotto una coltre di orgoglio troppo spessa. La lasciò cadere di scatto nel cassetto e lo richiuse con il ginocchio quando sentì bussare. Un ragazzo delle superiori entrò. «Buongiorno. Tu sei... il figlio di Aldo, giusto?», chiese il Matematico. Quello annuì. «Allora, su quale argomento hai bisogno di aiuto?», chiese subito il professore, alzandosi dalla sedia con un cigolio. «Sì, stiamo... stiamo facendo i sistemi di equazioni di secondo grado a due incognite», rispose l’allievo e tirò fuori un quaderno blu della Monocromo aperto su una pagina piena di cancellatura. «Falla alla lavagna. È importante che veda il tuo procedimento. Immagino che tu abbia provato più volte, giusto? E con più esercizi?», chiese il Matematico. L’altro annuì. «Allora sbagli nel procedimento. Vai, copia e svolgi questa». L’allievo obbedì e cominciò a scrivere alla lavagna bianca. Aveva una calligrafia pessima, non ci provava nemmeno a scrivere bene. Un po’ come il Matematico che ora lo aiutava. Anche lui si era arreso alla bellezza del caos e del disordine. Quando finì di copiare passò di nuovo il quaderno al Matematico per avere le mani libere e dalle pagine scivolò per terra la cartuccia di una Polaroid. Il Matematico sussultò e la raccolse: c’era il suo allievo in posa con due ragazze e un ragazzo, sorridevano sinceramente tutti e quattro. «Scusami», disse, quando si accorse che si era fermato a guardarla. «Ma di che, stia tranquillo», rispose un po’ imbarazzato il ragazzo. «Hai tanti amici?», chiese dopo qualche secondo il professore. Lui ci pensò un attimo, poi rispose: «No, non direi. Però i pochi che ho mi vogliono bene e io voglio bene a loro in tutti i loro pregi e difetti». Poi finì di svolgere il sistema, e il risultato era sbagliato. Al Matematico venne la pelle d’oca. «Alle superiori, ogni volta che chiedevo a qualcuno di dire un mio pregio, mi rispondevano che ero intelligente, o addirittura un genio», raccontò mentre guardava la lavagna cercando l’errore del suo allievo. «Sai, l’ho sempre trovato svilente». Il ragazzo lo guardò confuso. «Perché mai dovrebbe essere svilente?», chiese. Il Matematico ridacchiò un po’ e si grattò il naso. «Be’, in primis è offensivo verso i geni veri. E poi per quanto riguarda me medesimo... ho sempre trovato triste che la prima cosa a cui tutti pensavano quando si parlava di me fosse la mia intelligenza. Non ero una persona, un cuore che batteva, ma solo una splendida mente ben funzionante. A volte pensavo che non riuscissero a trovare niente di apprezzabile in me, e sai cosa? Forse avevo ragione. Forse ero solo intelligente e nient’altro», spiegò, poi strinse gli occhi per mettere a fuoco quella sfilza di numeri e lettere. E finalmente trovò l’errore. «Ecco», lo cerchiò con il pennarello. «Vedi, hai invertito il segno ma non il verso della parabola, per questo non torna», spiegò. «Aah! Mi scusi se Le ho fatto perdere tempo per una stupidaggine così», esclamò l’allievo portandosi una mano alla fronte. «Non importa, non importa. Anche i migliori possono sbagliare, anche i geni avranno sbagliato. Una volta Stephen Hawking sbagliò! Pensava che i buchi neri non esistessero, ci ha pure perso una scommessa», lo rassicurò il Matematico, poi gli occhi gli si offuscarono e le parole cominciarono a uscire da sole dalla sua bocca. «Comunque sia... a volte sbagliamo senza accorgercene, semplicemente perché non sappiamo come comportarci altrimenti. E perseveriamo nell’errore finché non sappiamo più come uscirne... e il risultato finale viene... sempre più allontanato da quello che dovrebbe essere», un lampo e un fruscio di capelli rossi gli volarono di nuovo di fronte agli occhi. Sottolineò il risultato che l’allievo aveva scritto. «Però poi al risultato finale ci arrivi. E cosa trovi? Tanto, tanto tempo perso perché ti sei gettato alla cieca in qualcosa di cui non sapevi le regole e la natura. Però, almeno, se parliamo di matematica, tutto ciò che perdi davvero è il tempo. Tempo che non tornerà mai più, certo, però è solo tempo, basta...», prese il cancellino e strofinò via tutto ciò che era scritto dopo l’errore, «cancellare la lavagna e ricominciare da capo. Fuori dal mondo idilliaco della matematica è un po’ più complicato, perseverando in errori così gravi si perdono cose importanti, occasioni...», tirò un sospiro tremante, mentre svolgeva correttamente il sistema, «persone... ma guarda alle tue spalle, non troverai nessuno a porgerti un cancellino per ricominciare da capo». L’allievo lo guardava con un sopracciglio alzato, confuso da quella paternale improvvisa. «Scusami mi... mi sono lasciato prendere la mano. Allora fanno... sei stato qui venti minuti ma per dieci minuti non ho fatto altro che parlare io di cose irrilevanti, quindi fanno 10€. Grazie per essere venuto. Fammi pubblicità coi tuoi compagni se ti va. Salutami Aldo. Ciao», mitragliò frettolosamente il Matematico mentre l’allievo posava sulla scrivania i soldi. Prima di uscire bisbigliò un «arrivederci» appena accennato, e quando ebbe chiuso la porta il professore sprofondò nella sua sedia, nascondendosi dalle ombre della stanza che lo avvolgevano. Prese di nuovo la foto e guardò di nuovo quelle labbra e le vide di nuovo corrugarsi e distorcersi in smorfie e urla, sentì di nuovo quelle parole così velenose, guardò di nuovo quelle guance e le vide di nuovo sbiancare e tingersi di rosso, guardò di nuovo quegli occhi e li rivide in tempesta, guardò di nuovo quei capelli di fuoco e rivide come li aveva persi. Guardò dietro di sé e non trovò niente per cancellarli.





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